Kiarostami è uno che mantiene le promesse.
Come Payami, regista con cui abbiamo aperto questa rubrica, Kiarostami si inserisce nel solco di quei cineasti contemporanei la cui testimonianza è lo specchio, tormentato e delicato insieme, della complessa realtà del mondo che si dischiude appena oltre i nostri confini, portato alla ribalta dai media nostrani solo quando fa notizia, quando nella vicenda raccontata risulti coinvolta o minacciata la tranquilla esistenza del mondo occidentale.
Abbas Kiarostami nasce in Iran nel 1940. Sin dal suo esordio alla regia con “Il viaggiatore” del 1974 (purtroppo inedito in Italia), dimostra di essere un cineasta “oltre”: oltre le convenzioni, oltre una visione stereotipata su toni drammatici della situazione iraniana, oltre il cinema nel senso convenzionale del termine.
I suoi film sono spesso collegati tra loro con rimandi metadiscorsivi e intertestuali, che annullano la chiusura del film come mondo finzionale a se stante e aprono la visione a universi inesplorati di senso, a dimensioni spazio-temporali che, nel momento stesso in cui svelano l’aspetto fittizio della realizzazione cinematografica (spesso, infatti, Kiarostami mostra il “dietro le quinte” della ripresa di un film), rivelano la capacità del cinema di farsi portatore dell’essenza recondita della vita stessa, al di là di qualunque finzione.
La cifra inconfondibile di Kiarostami è riconducibile a un unico concetto di fondo: la semplicità. Che è semplicità di mezzi (egli si avvale di attori non professionisti, presi dalla strada, e lavora sempre con il minimo dei mezzi economici e delle attrezzature a disposizione), ma anche di contenuti: la complessità del mondo iraniano appare risolta con estrema semplicità dalla macchina da presa, che si fa sguardo attento e mai invasivo della realtà raccontata sullo schermo nei suoi aspetti più delicati e umani.
Il primo lungometraggio, "Il viaggiatore" del1974, è tutto girato in presa diretta, con materiali di fortuna e attori non professionisti. Dal 1987 inizia finalmente a riscuotere un certo successo anche in Europa, aggiudicandosi con "Dov'è la casa del mio amico" il premio al Festival di Locarno dell’89. Con “E la vita continua” (premio “Rossellini” a Cannes nel 1992) e “Sotto gli ulivi” (1994) a cui è legato come in una trilogia volta a svelare progressivamente la finzione nella finzione fino a trovare al fondo di essa la realtà della vita stessa, il film premiato a Locarno testimonia la capacità del cineasta iraniano di oltrepassare la tradizione del cinema narrativo per giungere a portare sullo schermo “la vita da sola”.
Una conferma viene da "Close-up" che intreccia realtà e menzogna raggiungendo straordinari momenti lirici, fino a “Il sapore della ciliegia”, premiato a Cannes con la Palma d’oro nel ’97.
Kiarostami gioca con lo spettatore, ingaggia con lui una continua sfida interpretativa volta non ad affidare ai suoi film il senso della vita, ma la vita stessa, da sola: la vita dell’Iran, colta in tutta la dignità e umanità con cui sanno guardarla solo i bambini, non a caso figure cardini dell’universo cinematografico di Kiarostami.