Il panorama della produzione cinematografica africana si presenta non dissimile dalla condizione generale delle altre forme produttive del paese: sottosviluppo, carenza di mezzi economici e tecnici, dipendenza dall’Occidente per la distribuzione e per il reperimenti dei finanziamenti per la produzione.
Prima degli anni ’70, dunque, il cinema africano è congelato in una condizione di immobilità assoluta. Fino a che i cineasti africani non decidono di liberarsi dalla sudditanza dall’Occidente e ricercare piuttosto una forma di collaborazione internazionale: nasce, così, nel 1970 la Féderation Pan-Africaine des Cinéastes (FEPACI), seguita negli anni ’80 dal Consortium Interafricain de Distribution Cinématographique (CIDC).
Il piccolo stato del Burkina Faso assume, contro ogni precìvisione, le redini della produzione cinematografica del continente, diventando il centro amministrativo del cinema “nero”: ben presto all’interno del paese sorgono scuole di cinema e teatri di posa.
Tuttavia, data la diversità di etnie che compongono il paese, la produzione africana si presenta molto diversificata a seconda della regione d’origine. I film del Nord Africa pongono l’accento sulla critica sociale e affrontano tematiche d’attualità con toni ora viranti al dramma, ora alla satira. Cronaca degli anni di brace del regista Hamina riesce perfino a vincere la Palma d’Oro a Cannes nel 1975: questo riconoscimento così importante decreta finalmente il valore del cinema “nero” anche fuori dai confini nazionali.
Ma gli esempi di maggiore creatività si trovano nella produzione sub-sahariana. Qui i cineasti sentono l’esigenza di affidare ai propri film, più che la denuncia sociale, il patrimonio culturale ne religioso che rende unica ogni etnia dalle altre. Oltre a thriller e film d’azione che cercano la facile scalata al successo emulando Hollywood, e film dedicati al tema dell’esilio, trovano espressione lungometraggi che nella struttura e nel contenuto rendono omaggio alla tradizione culturale predominante nel paese: l’oralità.
Sono, così, frequenti racconti affidati a cantastorie (Djeli e Jom del 1981 ne sono un esempio) in cui la trama prende le mosse dal folklore locale, oppure viaggi di iniziazione alla riscoperta delle radici della cultura africana minacciata dall’invasione occidentale: Ceddo (1977) del cineasta Sembene, Wend Duni di Kaborè e ancor più Yeleen, circondato da un’aura di misticismo e soprannaturalità, testimoniano la volontà del popolo africano tutto di risollevarsi dalla sudditanza dall’Occidente e riscoprire la propria essenza per restituirgli il valore che merita e affermare la sua dignità rispetto a chi considera l’Africa un paese barbaro e incivile: un Terzo Mondo.
Claudia De Simini